I PENDOLARI DEL DESERTO.
VIAGGIO IN MAURITANIA SUL TRENO PIU’ LUNGO DEL MONDO
Alla stazione di Nouadibou sono una trentina i paganti in attesa dell’unica carrozza passeggeri, ma allineati a fianco dei binari sono molti di più i viaggiatori che aspettano di infilarsi nei vagoni adibiti al trasporto del ferro.
Proprietari di bestiame, commercianti o viaggiatori, tutta gente che conosce il treno a memoria. Due chilometri e mezzo di vagoni merci, più una vettura passeggeri: è il treno più lungo al mondo. Ogni giorno attraversa il deserto della Mauritania per collegare Zouerat, città mineraria del Sahara settentrionale scoperta negli anni venti dai francesi, a Nouadibou, crocevia di pescherecci, di merci e di migranti affacciato sull’Atlantico.
Diciotto ore il viaggio sui seicentocinquanta chilometri di binari che attraversano la distesa di sabbia. Ogni tipo di mercanzia aspetta di trovare il suo posto sui vagoni e quando il treno arriva c’è già chi lancia, chi afferra e chi carica. Sacchi che salgono, mani che scendono e in cinque minuti chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori: lo sforzo collettivo di una folla indisciplinata, un caos indecifrabile in cui tutti prendono posto, montoni e capre compresi. Tutti sullo stesso treno, un mondo senza tempo che si edifica in funzione della sua durata.
Il treno comincia la sua corsa attraverso il deserto e i turbanti si fanno e si disfano tentando di sottrarsi alla sabbia e al freddo insinuante. Ma sfuggire al deserto mentre lo si attraversa è impossibile, e guardando fuori dai finestrini irreparabilmente bloccati ci si rende conto che quando si alza il vento neanche il cielo esiste piu'; fuori ci sono solamente dune che si estendono verso l’orizzonte e si infiltrano nel treno colorando sedili, pelle e ciglia dei passeggeri.
“35 chilometri orari”, racconta Ibrahim, “oltre ad essere il treno più lungo del mondo, è anche il più lento.” Conosce bene il treno lui, che da tre anni controlla i biglietti dei paganti in un andirivieni attraverso il deserto. E’ il suo ultimo mese di servizio perchè finalmente sarà in grado di permettersi una vita più stabile, “meno movimentata”, sorride scoprendo una dentatura incompleta. “Negli anni cinquanta, quando i francesi l’hanno portato, questi dieci scompartimenti erano una prima classe” aggiunge, ma oggi del lusso iniziale la carrozza non conserva più lo splendore. Anzi, non ne rimane che una struttura ossea per lo più svestita, una tappezzeria stracciata che scopre molle, ferri spigolosi e un’imbottitura inesistente tra i fili della luce che penzolano senza elettricità.
Si inginocchiano le preghiere su stuoie colorate, si cucina e si ride mentre cala il buio su questa ferraglia diretta verso le miniere. Fatma, che è in viaggio con le figlie e la sorella, sta preparando una zuppa e ne offre un po’ a chiunque passi. “Facci una foto”, incalza quando vede la macchina fotografica e si mette in posa. Al momento di scrivere l’indirizzo dove inviare i ritratti, però, rimane perplessa “a dire il vero io vado avanti indietro vendendo verdura e frutta…un indirizzo vero e proprio non ce l’ho”. Parole che si ripetono tra i tanti viaggiatori che abitano il treno.
Nell’unico vagone le lingue si intrecciano nel tentativo di comunicare: l’arabo è la lingua ufficiale, l’assanya la lingua locale, e non manca il francese che ricorda l’eredità coloniale ancora oggi molto viva. A sorpresa si aggiunge uno spagnolo sgrammaticato, che esce dalla bocca di chi la Spagna non l’ha mai vista: sono i Saharawi, vengono dal sud del Marocco ma non si sentono marocchini. Tra di loro parlano l’assanya ma con gli stranieri preferiscono esprimersi in spagnolo, anche se al tempo in cui le truppe di Franco occupavano il territorio loro non erano ancora nati.
Habib, trent’anni appena, si irrigidisce davanti alla macchina fotografica: non vuole mostrare il suo viso ma ha voglia di raccontarsi. Appartiene al fronte polisario, un movimento che chiede l’indipendenza del Sahara occidentale e raccoglie i suoi rifugiati in cinque campi sparsi in Algeria. Il suo passaporto, che sfila con amarezza dalla tasca, è ancora suo malgrado marocchino. “Siamo in tanti su questo treno” rivela Habib “li riconosci perché come me non si faranno fotografare. Veniamo in Mauritania per fare commercio e riportiamo rifornimenti nei campi”. A Zouerat, infatti, troveranno un altro viaggio che li attende, direzione Algeria.
Nel nero della notte un rumore stridulo sibila per poco più di un paio di secondi, appena il tempo per aggrapparsi a qualcosa, e d’improvviso esplode un rumore di ferro contro ferro. Rotolano i bagagli e si ribaltano le persone, e il treno si ferma all’unica stazione intermedia: Choum. A scendere sono in pochi, tra cui qualche turista diretto nell’Adrar, fiore all’occhiello della Mauritania per le sue meraviglie naturali e le due antiche città sahariane di Chinguetti e Ouadane.
Sono dieci minuti di tregua dal vento e dal freddo, soprattutto per chi viaggia nei vagoni aperti: i pendolari del deserto, che non pagano biglietto e occupano il posto vuoto lasciato dal ferro. Li saluta Andrew, americano convertito all’Islam e occasionale viaggiatore contro vento in cerca di avventura, che si fa passare la bicicletta per riprendere il suo viaggio su due ruote nell’Africa dell’Ovest.
Quando il treno riparte la luce di una delle poche torce illumina un paio di visi sconosciuti: seduto sul velluto sgualcito dell’ antica prima classe qualche clandestino è sfuggito al freddo di un viaggio rubato alle merci, approfittando della sosta e del buio. “Credevo facesse più caldo qui dentro” esplode in una risata Yussuf che per cercare un po’ di tepore ha lasciato le sue vettovaglie incustodite.
Urla il treno, di nuovo si imbizzarrisce, sbalza, frena ma non si arresta. Queste bizze di vecchiaia rompono un finestrino: il rumore dei vetri prima preoccupa poi scatena ilarità, in fondo non è cambiato nulla. Yussuf deve star pensando che tra dentro e fuori non c’è molta differenza, però rimane appoggiato al suo sedile per aspettare l’arrivo a Zouerat, che con le sue miniere si tinge di rosso scuro e bruno rinunciando all’oro del deserto. E anche lui, all’alba, si riscalda con il thè preparato da Fatma per tutti quanti.